Open Badges e le identità olografiche

La visione filosofica di Serge Ravet per una nuova costruzione dell’identità e della storia personale nella rete: identità collettivamente definite, i cui atomi sono Open Badge.
9 Giugno 2015

di Serge Ravet @szerge - Badge EU Project http://www.openbadges.eu/

Come si definisce l’identità?

Qual è la definizione di identità? C’è la self-identity as narrative (Giddens) - ossia l’identità come autonarrazione di sè - e la  identity-through-others (Ronald D. Laing) - ovvero la costruzione di una propria identità tramite il riflesso della narrazione che gli altri fanno.

Per Gilbert Simondon è il risultato di un processo di “individuazione”, mentre per Edgar Morin la nostra identità è holographic:

"Moreover, in human beings as in other living creatures, the whole is present within the parts; every cell of a multicellular organism contains the totality of its genetic patrimony, and society inasmuch as a whole, is present within every individual in his language, knowledge, obligations, and standards. Just as each singular point of a hologram contains the totality of information of that which it represents, each singular cell, each singular individual contains hologrammatically the whole of which part and which is at the same time part of him". Edgar Morin, Seven complex lessons in education for the future

Insomma, l’identità non è solo quello che ci rende unici e identificabili,  ma comprende anche quello che ci connette con gli altri essere umani, con l’intero universo. Siamo dei singoli punti in un “continuum di identità” e l’intrecciarsi delle nostre identità è l’elemento alla base del tessuto sociale: come le particelle elementari nell’universo, localizzate e distribuite allo stesso tempo, sovrane e interconnesse.

Un’altra caratteristica delle identità è la capacità di mantenere la propria integrità e allo stesso tempo di riprodursi continuamente nell’ambiente nel quale crescono. Questo ci porta al tema delle identità collettive e al loro rapporto con le identità individuali. Ad esempio, cosa ci definisce come cittadini? Danny Wildemeersch e Joke Vandenabeele nel saggio “Issues of citizenship: coming-into-presence and preserving the difference” individuano due approcci distinti alla definizione di cittadinanza:  

  • citizenship-as-outcome, ovvero la cittadinanza come risultato, dove "democratic citizenship is regarded as a status that is only reached after one has completed a particular developmental and educational trajectory. This places the young person in the awkward position of not yet being a citizen' (Biesta 2006)." 
  • citizenship-as-practice, ossia la cittadinanza come pratica, quando "young people learn just as much about democracy and citizenship from the democratic and undemocratic experiences encountered in their day-to-day lives as from the official citizenship curriculum [...] If young people’s everyday lifeworld does not present opportunities for real participation, then it doesn’t make much sense to organise citizenship classes designed to transform young people into active responsible citizens’ (Biesta 2006)."

Da queste due definizioni è facile immaginare due diversi approcci nell’usare gli Open Badge: da un lato la creazione di un percorso alla fine del quale si può conquistare il citizen badge, dall’altra invece l’attribuzione del citizen badge tramite l’endorsement, la connessione con le altre persone, le iniziative e i risultati. In poche parole il primo approccio è relativo alla collezione - condizionato, statico, standardizzato e creato per i cittadini - mentre il secondo ha a che fare con la connessione - incondizionato, dinamico, inventivo e creato con i cittadini.

Queste due definizioni hanno conseguenze importanti anche sulla tipologia di infrastruttura digitale di cui hanno bisogno per essere espresse. La citizenship-as-outcome è pienamente compatibile con un modello che affronti l’identità come una serie di attributi, come degli Open Badges gettati in un grande contenitore; la citizenship-as-practice invece necessita di qualcosa di più di una semplice scorta di caratteristiche - sebbene affidabili e sicure - qualcosa di più olografico, nel quale osservando un singolo cittadino si possano leggere l’intera società e la sua democrazia in azione.

E come si traduce nel mondo digitale?

Ma come tradurre il concetto di identità olografiche, localizzate e distribuite, nel mondo digitale? Come possono le tecnologie supportare il processo di costruzione dell’identità? Mentre l’ePortfolio è una tecnologia adatta per l’identità come autonarrazione e gli Open Badges sono pensati per l’identità definite attraverso il confronto con gli altri, quale potrebbe essere la tecnologia per l’identità olografica?

Innanzitutto va chiarita la differenza che intercorre fra identità e identificante: una carta di identità non è una identità ma uno strumento pensato per dare credenziali (età, nazionalità). La confusione fra questi due aspetti è dovuta all’adozione nel linguaggio corrente di un termine usato nei network digitali nel quale “provare” l’identità di una persona significa “provare” la validità delle credenziali associate allo strumento identificante posseduto dalla stessa persona (come ad esempio avere più di 18 anni per comprare alcolici in un negozio).  Ma non è la stessa cosa! L’identità non può essere ridotta a un set di credenziali!

Una identità non può nemmeno esistere indipendentemente dalle altre identità, pertanto proteggere una serie di caratteristiche attraverso una cassaforte  digitale è davvero poco influente nel proteggere le nostre identità - la reputazione di una persona, che è parte integrante dell’identità, sarebbe custodita nelle casseforti digitali di altri….  

E ancora, dobbiamo mantenere l’integrità delle nostre identità nella frammentazione generata dall’abuso sistematico dei service providers che ci hanno condotto a un mondo dominato dalla schiavitù digitale. Soprattutto quando un “buono schiavista” sa come prendersi cura della propria massa rendendo questa situazione non solo senza sofferenze ma quasi piacevole.

Nel “Postscript on the Societies of Control” Gilles Deleuze spiega che:

The numerical language of control is made of codes that mark access to information, or reject it. We no longer find ourselves dealing with the mass/individual pair. Individuals have become 'dividuals,' and masses, samples, data, markets, or 'banks.

Per Deleuze, queste tecnologie indicano che noi non siamo in-divisibili identità, ma anzi, divisi e divisibili all’infinito. Quello che inizialmente si configura come una informazione particolare e specifica su una persona -  noi stessi - può essere scissa da noi e ricombinata in nuovi modi che sfuggono al nostro controllo. Un modello di ricombinare le informazioni basato su criteri giudicati interessanti da chi ha accesso ai dati - che siano i governi o i responsabili del marketing delle aziende. Viviamo insomma, secondo Deleuze, in una società del controllo come afferma Robert W. Williams in “Politics and Self in the Age of Digital Re(pro)ducibility.

Comprendere che il mondo digitale nel quale viviamo ci sta portando a una nuova forma di schiavitù, dovrebbe essere sufficiente a capire perché lo standard di casseforti digitali non è la soluzione, e che nascondercisi dietro non porterà all’abolizione della schiavitù digitale. Quello di cui abbiamo bisogno, piuttosto, è di una democrazia digitale, che ci dia la forza di agire come soggetti emancipati. La cittadinanza digitale as-practice potrebbe essere la strada giusta per creare la nostra identità come cittadini.

Costruire l’identità olografica

Che tipo di rappresentazione digitale dovremmo costruire per poter finalmente dire: l’intero mondo è rappresentato all’interno dell’identità di una singola persona? Nel 2011, quando scrissi The New Internet of Subject Manifesto” suggerivo la creazione di una “holographic social memory”. Il punto è che invece di creare dei contenitori individuali di informazioni, dovremmo esplorare l’opzione di costruire un continuum che ci conduca a un processo di individuazione dove, ad esempio, le identità, individuali e collettive, emergano come singoli punti parte del tutto.

Immaginiamo che tutti gli eventi nella nostra vita creino un identificativo unico e universale (universal unique identifiers - UUIDs) e che si sia capaci di associare l’UUID di un certo evento a tutte le persone, luoghi, idee, etc ad esso correlati. Ad esempio, quando qualcuno nasce, lo UUID che è stato generato è associato ai genitori, al luogo dove avviene la nascita e al momento nel quale avviene. Adesso immaginiamo che la stessa persona continui a registrare tutti gli eventi legati alla sua vita semplicemente “taggando” tutte le cose che vengono associate a questa. Usando semplicemente la storia  dello UUIDs sarebbe possible ricreare il film di questa persona da tante prospettive diverse. E se potessimo combinare questi film personali fra loro il risultato sarebbe un unico grande film collettivo. [...]

Come i pixel olografici che contengono le informazioni relative a tutta l’immagine ma dalla loro personale prospettiva, la rappresentazione di una singola identità conterrebbe informazioni su tutta la società. Chiamiamo 'holonoma' (dal greco ὁλος, "tutto" e ὀνομα, "nome") questa architettura che rappresenta la memoria collettiva, e le identità associate holoIDs (HID). Gli individui avrebbero pieno controllo dei loro HID, che sarebbero processati in tempo reale proprio dai loro stessi Agenti. E diversi Agenti si interfaccerebbero con differenti identità della stessa persona, quali la cittadinanza, lo studio, la famiglia etc.

Questa memoria olografica, costruita in un ambiente informatico affidabile, non solo permetterebbe di aumentare il potenziale risultato dei motori di ricerca, ma aumenterebbe anche il potere degli individui di decidere che cosa possa essere “ricercato” o meno, trasformando i motori di ricerca in “motori di scoperta”.
Invece di disegnare sistemi nei quali l’integrità digitale è generata a partire da una astrazione, che fino ad adesso ha prodotto dei contenitori di dati personali che appaiono ancora marginali e che non prevengono dall’abuso sistematico delle nostre identità, suggerisco di iniziare prima a disegnare l’infrastruttura, o in altre parole il milieu, dal quale specifiche singolarità possano emergere e crescere in un processo di individuazione.

E la precondizione perché possa esistere un tale milieu è la fiducia. Qualcosa di molto diverso dall’incredibile quantità di tecnologie insicure e carenti dell’elemento fiduciario che abbiamo sviluppato sino ad oggi. 

Adesso, basta sostituire gli UUIDs con gli Open Badges e possiamo creare qualcosa di molto, molto simile a quello che è stato descritto nel New Manifesto. Perché gli Open Badges sono proprio dei “connettori” di informazioni e non dei  semplici “raccoglitori”, che operano in uno spazio vuoto.